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300 foto del fotografo ucraino Boris Mikhailov. Torino

27/11/2015 9:03

Guido Costa Project l’aveva presentato nel suo spazio espositivo di V. Mazzini 24 a Torino la notte delle arti contemporanee del 2014, come da recensione su Voce pinerolese (“L’arte contemporanea nella notte torinese”). Si tratta del fotografo ucraino Boris Mikhailov di cui si possono ammirare ora 300 fotografie che ricostruiscono la sua carriera nella splendida location “Camera”, la nuova casa della fotografia inaugurata a Torino in via delle Rosine 18. Già nell’atrio si resta incuriositi dai volumi per esempio della collana Piccola Biblioteca Einaudi sulla storia della fotografia e dai divertenti testi di Bruno Munari (“Fotocronache”, 1944; “Supplemento al dizionario italiano”, 1958). Il catalogo della mostra rappresenta un’ulteriore sala a disposizione con oltre 500 fotografie dell’artista nato a Kharkiv nel 1938. Nella prima sala scorrono su musiche anni Sessanta le immagini di “Superimpositions” (1968-75), due diapositive montate insieme sullo stesso telaio in modo da creare situazioni oniriche. Emerge quasi immediatamente la sua fascinazione per il corpo nudo. «Durante l’impero sovietico non c’erano nudi, il corpo nudo non va mai esposto, la nudità semplicemente non esisteva», spiega Mikhailov. Il corpo nudo diventa la prima forma di ribellione all’autorità e allo stesso tempo il primo mezzo di ricerca espressiva. «Sotto l’Unione Sovietica soffrivo. Non volevo veramente combattere ma ero stanco del sistema. Tutto era rosso, rosso, rosso. Quando facevo una foto avevo sempre paura. Il KGB faceva regolarmente irruzione nel mio studio». Nella sala dove il curatore della mostra, Federico Zanot, raccoglie le foto della serie “Red series” (1968-75) colpisce effettivamente il rosso che punteggia tutti gli scatti, in particolare quelli delle manifestazioni ufficiali. Fungono da contrappunto le immagini in bianco nero della serie “Luriki” (1976-81) dove si applicano manualmente i colori. L’intervento pittorico, anche solo a colpi di biro, si era visto nella sala precedente con stampe “vintage” di piccolo formato (“Black archive”, 1968-79) che ritraggono la cittadina di Kharkiv ma soprattutto gli abitanti, ossessivamente inquadrati di spalle. Ancora un trionfo di colore nella sala dove si contrappongono le immagini virate su tonalità brunastre per documentare una vacanza balneare sulle spiagge della Crimea, dissacrante parodia di usi e costumi della nuova borghesia (“Crimean snobism”, 1981) e il blu di “At Dusk” (1993) che documentano le difficoltà e le povertà emerse dopo il collasso dell’Unione Sovietica.

Celeberrima la serie “Case History” (1997-98) fondata sull’osservazione dei “bomzhes”, senzatetto a cui l’avvento del capitalismo in Ucraina strappa ogni cosa. Alcune foto ingrandite sono poste nel corridoio che il visitatore percorre al termine della mostra. Sono di proprietà di rinomate gallerie europee come la londinese Saatchi o la parigina Suzanne Tarasiève. Il contrappunto stavolta è nella raccolta “Tea coffee cappuccino” (2000-10), già il titolo, poi il soffermarsi dell’obiettivo sulla plastica documentano gli usi occidentali ormai invalsi tra la gente. Si chiude con “The theater of war” (2013), documentazione della resistenza di Euromaidan, con l’attenzione volta ai momenti di pausa durante la contestazione avviatasi nel novembre 2013 dopo che il governo ucraino aveva sospeso i preparativi per la firma a Vilnius di un accordo di associazione e di libero scambio con l'Unione Europea, a favore della ripresa di relazioni economiche più strette con la Russia.

Piergiacomo Oderda

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