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Interferenze digitali. Internet e i danni possibili: IAD (“Internet addiction disorderer”

17/11/2017 15:57

Quando due giovani professori, Giorgio Gambuzzi e Matteo Negro, aiutano i genitori degli allievi dell’Istituto tecnico Agnelli di Torino a decodificare le interferenze delle nuove tecnologie sull’apprendimento, si compie un circolo virtuoso nell’educazione. Le “slides” mostrano i ragazzi assorti a messaggiare, addirittura in Cina si prevedono corsie preferenziali per chi cammina con lo sguardo incollato sullo smartphone. Definito “coltellino svizzero dell’era informatica” o “protesi digitale” (Roberto Casati), l’abuso dell’uso di tecnologie elettroniche si configura come una vera e propria dipendenza, andando a stimolare il cervello mesocorticolimbico. Secondo il ricercatore italiano Paolo Ferri, i bambini sono antropologicamente diversi dai bimbi di un tempo, si definiscono “nativi digitali”. Gli “immigrati digitali” hanno dovuto adattarsi con fatica in un secondo momento della loro formazione. I “tardivi o deportati digitali” non possono che mostrare diffidenza verso i nuovi mezzi tecnologici.

Matteo Negro segnala alcuni danni possibili: IAD (“Internet addiction disorderer”), diagnosticato da Goldberg nel 1995, difficoltà a ridurre l’uso di Internet nonostante le conseguenze negative in ambito familiare e scolastico; Hikikomori, termine giapponese per significare il disagio espresso dagli adolescenti chiusi nella loro stanza. Lo smartphone, talvolta tenuto in mano per sei, sette ore, può provocare tendinite da messaggio, torcicollo, allucinazione da vibrazione, disturbi del sonno. La “nomofobia” (da “no mobile”) è la paura di essere separati dal proprio “device”, la “fomo” (“fear of missing out”) è l’ansia di essere tagliati fuori, si aggiornano i social appena si sta vivendo un evento. Infine, tra le cause di insonnia, può esservi la consultazione dello smartphone prima di andare a dormire.

Giorgio Gambuzzi riprende ancora Paolo Ferri (“I nuovi bambini”, 2014; “Nativi digitali”, 2011). Tra i miti da sfatare c’è la scuola che sembra vecchia quando si arriva da casa dove dominano tablet e notebook. Il contenuto del libro sembra non bastare più, è il web il vettore di comunicazione. In realtà, la differenza tra scuola vecchia e nuova è determinata da strategie nuove, quali “problem solving”, “cooperative learning”, didattica laboratoriale, “flipped classroom”, “peer education”. Il sapere richiede selezione, comprendere profondamente, interconnettere, avere una visione d’insieme. Manfred Spitzer (“Demenza digitale”, 2012) individua il rischio della superficialità di pensiero. L’e-book induce a sorvolare (“light reading”), l’eccessiva stimolazione di opzioni multimediali conduce alla distrazione. Se si elabora un contenuto più a lungo e in modo più approfondito, lo si impara meglio. Secondo Earl Miller, non è possibile per il nostro cervello svolgere bene due azioni contemporaneamente. Più che di “multitasking”, è corretto parlare di “task switching”, si passa da una cosa all’altra, uno “zapping” che rende incapaci di concentrarsi su stimoli precisi.

Piergiacomo Oderda

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