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“Bocuse d'or off.” Tra buoni vini, cucina e tanta storia piemontese

16/06/2018 9:21

di Piergiacomo Oderda

 

L’effigie di Cavour scruta di sottecchi Bruna Bertolo, scrittrice rivolese, impegnata nella presentazione di “Donne e cucina nel Risorgimento. Aneddoti e ricette popolari, borghesi, reali dell’800” (Susalibri, 2011). La statua è situata nella sala più prestigiosa di palazzo Birago (V. Carlo Alberto 16 a Torino), l’occasione è dettata dall’iniziativa “Bocuse d’or off”; il nome di Cavour ricorre a fianco di quello della marchesa Giulia di Barolo nell’accenno al re dei vini, «il primo a subire significative modifiche nel sistema di lavorazione alla base della versione moderna». Proprio su consiglio di Cavour si convocò l’enologo francese Louis Oudart per sovrintendere alla vinificazione del Barolo e Carlo Alberto non esitò a pretenderne 325 botticelle (una per giorno, escluso il periodo quaresimale). Va aggiunto inoltre che il medico torinese Secondo Laura (“Doveri di madre”, 1870) consigliava alle donne in gravidanza un buon bicchiere di Barolo.

La cucina riservata alla nobiltà era raffinata, dominavano i grandi cuochi «per elaborare piatti gustosi e impegnativi». Il popolo “tirava la cinghia”, il cibo era poco e di scarso valore nutrizionale. Il testo di Francesco Chapusot  “La cucina sana, economica ed elegante” era corredato di eleganti grafiche, troneggiavano il “filetto di bue all’italiana” o lo “storione in insalata”. Eppure il nome della prima regina d’Italia, Margherita, venne «associato al piatto più popolare e famoso della tradizione napoletana, la pizza Margherita». In visita alla reggia di Capodimonte, don Raffaele Esposito ricreò il tricolore proponendo pomodoro, mozzarella e basilico sulla pizza (oltre ad una versione bianca e una con pescetti). Pare che la regina stessa si dilettasse a preparare gustose frittelle di ciliegie nelle sontuose cucine della reggia di Racconigi. Bertolo cita l’imperatrice Sissi, modello di bellezza per la sua «figura slanciata e longilinea, dovuta a diete naturali da lei inventate». Un alimento costante era il latte fresco per il quale si faceva accompagnare nei suoi viaggi da due mucche e una capra provenienti dalle sue fattorie. Era capace di lunghi periodi di astinenza dal cibo ma adorava la pasticceria raffinata come i dolci alla violetta, «ogni mese da Parma partivano centinaia di scatole di violette candite». Il collegamento spontaneo è con Maria Luigia di Parma che cercava di trasformare la città in una piccola Parigi organizzando ogni settimana due cene prelibate. Il suo «credenziere e liquorista» era Vincenzo Agnoletti a cui seguì tal monsieur Rousseau che la conquistava con le sue delizie. Con Maria Luigia si passò dall’esposizione di piatti su tavola imbandita (servizio “alla francese”) al servizio “alla russa” con frutta e dolci in centro tavola ma con i piatti serviti uno alla volta. Tra i piatti caratteristici del tempo, una minestra con gnocchi di farina, latte e formaggio, ripieni di purea di selvaggina, impanati e cotti al forno.

Una «buona forchetta» era la Bela Rosin, il suo cavallo di battaglia era la “Bagna caoda” ma non mancavano i “tajarin”, i “ballôt” di polenta con toma e gorgonzola e le omonime uove sode ripiene di aglio e prezzemolo. La scrittrice mostra delle immagini sul bancone del maccaronaro, primo esempio di “street food” nei quartieri popolari di Napoli. Bruno Gambarotta cita nella prefazione al libro Maria Sofia di Baviera, ultima regina del Regno delle Due Sicilie, che per ogni compleanno gradiva ricevere «una cassettina di maccheroni con cacio e conserva.  Il “soffritto” venduto a fette a cinque soldi era una catasta rossa composta di ritagli di carne di maiale con olio, pomodoro, peperone rosso schiacciato; una vera “dinamite” a detta di Matilde Serao. Privilegio delle monache era il confezionamento di squisiti dolci. Fu Enrichetta Caracciolo, sfuggita dal convento, la prima donna a stringere la mano a Garibaldi al suo ingresso a Napoli e a svelare i segreti delle «sfogliatelle, barchiglie e pasta reale» (“Misteri del chiostro napoletano”, 1867). I volumi di cucina «insegnavano il risparmio, a realizzare piatti in stretta economia, avanzi e scarti venivano utilizzati in prelibatezze». Vanno annoverate alcune vere e proprie stranezze, “Occhi di vitello colla farsa”, “Lodole in cassa”, “Rosolata di poppa di vitello”. La difficoltà nel conservare i cibi induceva alla preparazione di gelatine di frutta, confettura, marmellata, Bruna Bertolo stessa si è cimentata con una cesta di mele cotogne».

Usciti dalla sala Giunta, una piacevole sorpresa: assaggi fantasiosi di carne cruda, dentro uno chantilly al cioccolato oppure sotto un ciuffo di sorbetto al limone. Curioso il “sushi” di carne cruda con letto di riso acquerello e frammenti di pistacchi, ad opera della macelleria Giampaolo di V. Cibrario 61 a Torino.

Piergiacomo Oderda

 

 

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