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“Nome di donna” e dialogo con Marco Tullio Giordana, Valerio Binasco e Capotondi

 

di Piergiacomo Oderda

Al cinema Nazionale di Torino, dopo la proiezione del film “Nome di donna”, c’è stata l’occasione di dialogare con alcuni membri del cast. «Valerio Binasco è molto diverso dal personaggio del film» chiarisce il regista, Marco Tullio Giordana, «lo dico a sua protezione, lo voglio proteggere dal linciaggio». Valerio Binasco racconta: «sono tornato qualche giorno fa, ho preso la macchina per venire a Torino. Accendo la radio e c’è un programma radiofonico dove il conduttore dice: “A Binasco gli spaccherei la faccia!”. Poi la Capotondi  racconta la trama del film: “Il mio personaggio va a lavorare in una clinica. Binasco mi vuole violentare. Poi c’è il processo durante il quale Binasco riceve sei anni per violenza sessuale”. Sono stato profondamente identificato con il ruolo. Questo penso che sia il punto d’arrivo di una carriera!». Replica il regista: «Non avresti dovuto interpretarlo così bene!». Ancora Binasco scherza sul nome del suo personaggio, Marco Maria Torri, «signor Giordana, il personaggio del cattivo ha un triplo nome, come il suo!».

Il moderatore del dibattito definisce “Nome di donna”, «un film di denuncia, dopo tutta la campagna “#Metoo”». Il regista chiama accanto a sé Cristiana Mainardi, la sceneggiatrice. «Fa parte del cast a pieno titolo. Il film, Cristiana ha cominciato a scriverlo tre anni fa, non prevedendo gli sviluppi così clamorosi che poi ha avuto questo problema. A noi ci sembrava addirittura di averlo fatto con molto ritardo perché il problema esiste da molto prima degli scandali hollywoodiani. E’ un problema che penso tutte le donne sappiano di cosa si stia parlando. Il cinema ha raccontato casi di violenza sulle donne, lo stupro, l’omicidio. Io stesso ho fatto un film (“Lea”) in TV dove ho raccontato che una donna è stata ammazzata dal movimento ‘ndranghetista perché non voleva condividere quell’esistenza. Ma la molestia è una cosa molto più delicata perché al limite di qualcosa che è molto opinabile. Ogni qual volta qualcuno ha il coraggio di denunciare subito si dice: “Oh, ma no, lei se lo sogna! Non è successo niente, hai frainteso”. E’ molto facile buttarla in “caciara” un po’ come fa il protagonista perché non è un capitolo della guerra fra i sessi ma è un capitolo della sopraffazione di uno che ha il potere su chi non ne ha e quindi non è nelle condizioni di dire di no, dire di no comporta molti rischi, ciò spiega perché accade con poca frequenza. Anche dal punto di vista psicologico, il danno è molto grosso, è difficile accettare di averla subita, volerla riconoscere, volerla ammettere è qualcosa che tocca l’integrità della persona molto profondamente. E uno per prima cosa vuole dimenticare, ha voglia di pensare che non gli è mai successo. Provo compassione per chi anche a distanza di tanto tempo riesce a formulare la sua accusa, ad uscire allo scoperto, rischiare che tutti le saltino addosso, a fare le “bucce” a lei anziché al molestatore. Questo mi sembrava una cosa da dire anche al di là della pubblicità che non avremmo mai potuto sospettare su casi del genere».

Binasco va a raccogliere una domanda dal pubblico sbottando in un “E vai!” non appena la spettatrice ammette che  il film le è piaciuto tantissimo. «Ha colto tantissimi aspetti, purtroppo molte donne si possono riconoscere in un film di questo tipo». Si interroga sul finale « la giornalista chiede “Mi sono ricordata tutti i nomi? Com’è andata?”, il tipo la tocca. Per come sono fatta io gli avrei dato uno “sganascione”. Quarant’anni fa sul mio posto di lavoro un mio capufficio aveva osato con un dito toccarmi la camicetta. Non ci ho visto più. Sono partiti due “manrovesci” che i miei colleghi sono rimasti sbalorditi. “Io ti denuncio”, mi ha detto. “Ci provi pure, gliene dò altri”».

Marco Tullio Giordana replica: «penso che sia più realistico averlo finito così perché intanto i tempi sono molto cambiati. Oggi il lavoro non ha quasi più tutela e quindi uno fa fatica di ammettere che sta subendo una violenza. Potevamo finire con il trionfo di Nina (Cristiana Capotondi) però mi sarebbe sembrato superficiale. Nina ce l’ha fatta ma quante sono le donne che non hanno la capacità di organizzarsi, di trovare, veder accettata la loro ribellione, di trovare gli avvocati. Appena finisce quel processo, malgrado quel processo, il giornalista che l’ha seguito non si fa nessuno scrupolo anche forse pensando di fare un complimento come diceva Adriana Asti (impersona Ines nel film). Il sentimento che deve suscitare non è la soddisfazione della battaglia vinta ma la rabbia di sapere che questa battaglia, anche se non siamo più nel Medioevo, va continuata giorno dopo giorno».

Anna Maria Zuccaro, rappresentante di D.I.Re. (donne in rete contro la violenza), dà un contributo al dibattito. «Il film lancia un messaggio di “alert”, ci è andata bene ma se non cambiamo noi, se non cambia la struttura della società, si fa in fretta a trovarsi nella situazione opposta, a subire o non far emergere questo argomento». Ci sono delle similitudini nei casi di maltrattamento, «le prove non esistono, le donne accettano violenze fra le mura domestiche, difficilmente c’è una refertazione».

Un’altra domanda riguarda la scelta di far mettere le telecamere all’interno dello studio di Binasco. Senza quelle telecamere il processo non avrebbe avuto quell’esito?

Risponde la sceneggiatrice, «E’ un passaggio importante rispetto all’opinione pubblica. La protagonista introduce questo tema ma, ovviamente, le telecamere vengono predisposte per intervento del magistrato. La legge è più positiva per accogliere queste prove. Il film va verso questa direzione. Quella è la prova schiacciante rispetto a Torri. Nel frattempo Nina, anche grazie a Sonia Talenti (Vanessa Scalera) e al tema delle percosse ha fatto aprire quell’iter processuale per cui l’esito sarebbe stato simile».

Un avvocato presente fra il pubblico sembra indispettirsi perché l’avvocato “buono” ha i tacchi bassi e quello “cattivo” i tacchi altri. Risponde il regista, «Mi sono ispirato per il personaggio interpretato da Michela Cescon, l’avvocato “buono” (ammesso che esistano avvocati buoni) ad un celebre avvocato, Tina Lagosteni Bassi, che si è dedicata a casi critici quando anche l’opinione pubblica era diversamente orientata. Per il personaggio “cattivo” mi sono ispirato a Crudelia Demon, a Daniela Santanche’, imitando il suo modo di vestire. Trovo che in tribunale non si dovrebbe andare con i tacchi da quindici. Dovessi scegliere un avvocato preferirei una che non si esibisse».

 

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