Facebook Twitter Youtube Feed RSS

FOTO. comunità sant'Egidio contro la pena di morte con due testimoni che vivono in Irlanda.

LE FOTO

 
di Piergiacomo Oderda
Affettuosamente, Peter Pringle spinge la carrozzina di Sunny Jacobs. Vivono insieme in Irlanda e lottano per la difesa della vita e l’abolizione della pena di morte. Presentati da Antonella Roetto della Comunità di Sant’Egidio, intervengono di fronte ad una platea di un centinaio di studenti dell’Istituto Avogadro di Torino. Peter è stato imprigionato e condannato a morte nel 1980 per un delitto che non aveva commesso. Il motivo del suo arresto va ricondotto al coinvolgimento nel movimento indipendentista irlandese, all’età di vent’anni. «Non avevo niente a che fare col delitto», dopo una rapina in banca, nel tentativo di bloccare la fuga ai malviventi alcuni poliziotti erano rimasti uccisi. «Hanno fabbricato delle prove contro di me». Condannato a morte, esecuzione fissata il 19 dicembre del 1980, è stato messo in una prigione di massima sicurezza, in una cella nel braccio della morte. L’esecuzione rimase in attesa dell’udienza di istanza d’appello, rifiutata nell’aprile del 1981. Peter racconta come le guardie carcerarie discutessero su quale sarebbe stato il loro ruolo nell’esecuzione capitale. Trattandosi di impiccagione, due carcerieri dovevano trovarsi sotto il patibolo «per prendere le gambe e tirarle in modo da essere sicuri che il collo fosse rotto. Con mia sorpresa, mi sono reso conto che non avevo paura di morire, tuttavia si stavano portando via la mia dignità di essere uomo. Mi avevano imprigionato fisicamente ma non la mia mente, il mio cuore, il mio spirito». Il governo decise di non giustiziarlo e mutò la prima sentenza in una detenzione di quarant’anni. «Determinato a provare la mia innocenza, iniziai a studiare legge, ma non riuscivo a studiare perché ero troppo arrabbiato. Dovevo trovare un modo per tranquillizzarmi». Imparò a fare yoga e meditazione, «mi ha aiutato a superare le difficoltà». Molti prigionieri gli chiedevano consigli legali, «tentando di aiutare loro, aiutavo me stesso». Nel 1992 ha presentato senza avvocati il suo caso alla Corte di Dublino. Il processo è andato avanti per tre anni e nel 1995 la condanna è stata annullata. «Usciti di prigione, è difficile rientrare nella vita comune, c’è un senso di disconnessione dalla società reale», si tende a parlare sempre della propria prigionia. Tre anni dopo «è successo un miracolo, ho ricevuto una telefonata da una signora americana (Sunny Jacobs) che stava venendo in Irlanda per  parlare ad un meeting. Rimasi esterrefatto dalla sua storia. Nacque un’amicizia, una relazione, ci siamo sposati e abbiamo creato una Fondazione dove accogliamo altre persone ingiustamente condannate».
Serafica, Sunny ci saluta in italiano, «siamo felici di essere qui oggi». Antonella Roetto è traduttrice del libro che racconta la sua storia, fresco di stampa per Nèos edizioni (“Tempo rubato”). Sunny era una madre hippy, “peace and love”. Era presente sulla scena del crimine, seduta in macchina con i suoi due figli. Alla guida c’era un amico del marito o presunto tale. Cominciata la sparatoria dove due poliziotti perdono la vita, lei si china istintivamente per proteggere i piccoli. Viene interrogata ma lei non sa cosa sia successo; pensano allora che stia mentendo. Li arrestano e li portano in un’area abbandonata; sentono discutere fra loro i poliziotti se portarli veramente alla stazione di polizia o se semplicemente ammazzarli adducendo la scusa che stessero tentando di scappare. Li portano alla stazione di polizia e Sunny chiede di fare una telefonata. La deridono, «questa scena si vede solo nei film, in realtà possono tenerla settantadue ore» senza farle telefonare a chicchessia. Durante il lungo interrogatorio, sente che il figlio di nove anni la chiama per nome: «continuano a farmi domande e non so cosa rispondere». «Non devi rispondere a nessuna domanda», gli dico, «devi solo aspettare che arrivino i nonni». Sunny si era resa conto che i bimbi, anziché essere protetti dai servizi sociali, venivano interrogati senza tutela giuridica. 
Il processo del marito, Jesse Tafero, durò appena quattro giorni prima di condannarlo a morte. «L’unica testimonianza contro di lui era quella del vero assassino, colui che guidava la macchina. A nostra insaputa aveva puttuito col Procuratore uno scambio tra una pena di morte e tre ergastoli, se avesse testimoniato contro Sunny e Jesse. L’assassino aveva paura della sedia elettrica e il Procuratore ambiva a far carriera avvantaggiandosi di aver fatto condannare in fretta l’assassino dei poliziotti». Coinvolsero anche una ragazza, in carcere per tossicodipendenza, che diede testimonianza della partecipazione di Sunny al delitto, «avevo ucciso, mi era piaciuto e l’avrei rifatto». Nonostante ciò, i giurati non si convinsero di dare la pena di morte, anche se il giudice era un ex poliziotto, dunque certo non imparziale; un giurato si rifiutò di adeguarsi alla maggioranza. Fu il giudice a “bypassare” la sentenza e condannare a morte Sunny. «Mi misero in una prigione di massima sicurezza in un’area speciale dove ero sola, l’unica prigioniera». Non poteva parlare con nessuno, nemmeno con le guardie carcerarie. La cella era lunga sei passi dalla porta al water ed era larga quanto consentiva l’apertura delle braccia. «All’inizio ero molto arrabbiata, passeggiavo avanti e indietro». Aveva a disposizione due libri, uno di legge e una Bibbia, «un libro di saggezza per me allora», Sunny è di fede ebraica, «aprivo una pagina a caso e il messaggio mi aiutava a passar la giornata». «Leggendo la Bibbia, mi sono resa conto che il sistema non aveva il potere di decidere quando sarei morta, la mia vita mi apparteneva. Ho deciso che per il tempo in cui sarei stata in cella, avrei trasformato me stessa in un santuario». Anche lei ha iniziato a praticare yoga e meditazione, di cui ora è insegnante, «discutevo con Dio, non riuscivo a capire perché avesse permesso che succedessero queste cose». Quando cominciò a ricevere lettere, scoprì che suo figlio era stato per due mesi sotto la tutela dello Stato; traumatizzato, lo si dovette iscrivere ad una scuola speciale. Dopo cinque anni di isolamento, cambiarono la sentenza da condanna a morte in ergastolo; il giudice aveva cambiato la sentenza dei giurati in modo illegale. «Ero la persona più felice al mondo, potevo parlare, mangiare con altre persone, potevo telefonare e parlare con la mia famiglia». Non mutò, invece, la sentenza per il marito, anche se «col passare degli anni, il vero assassino confessò diverse volte la sua colpa». Era orgoglioso di aver ucciso e che altre due persone fossero state condannate al suo posto. Alcuni prigionieri che avevano ascoltato, decisero di testimoniare davanti al giudice, «testimonianza non credibile», purtroppo, data la loro condizione di carcerati. Rivide la ragazza che aveva testimoniato contro di lei, costei parlò in tribunale a favore di Sunny ma «quando il Procuratore le si avvicinò, ebbe così paura di ritornare in prigione che ebbe un attacco di cuore». Dall’ospedale, registrò su video la sua testimonianza, rigettata per un altro cavillo legale. Due anni dopo, Jesse fu portato alla sedia elettrica. «Funzionò male, tanto che la sua testa prese fuoco e dovettero dare elettricità per tre volte prima che morisse». Si venne a sapere che avevano sostituito nell’elmetto la spugna naturale con una spugna sintetica, cattiva conduttrice di corrente elettrica, «forse perché soffrisse di più». Dopo altri due anni, l’avvocato vinse il processo d’appello ma anziché rilasciarla, Sunny dovette subire un altro processo, «non volevano ammettere di aver fatto non uno ma due errori drammatici, Jesse era stato ucciso e io ero rimasta in prigione per diciassette anni». Entrata in carcere a ventisette anni, si ritrovava “orfana, vedova, nonna” a 47. La nipote di tre anni l’accolse dicendo: “Nonna, lo so perché non sei venuta prima, ti eri persa!”. «Vero, Claudia», le ha risposto, «mi sono persa ma non mi perderò più. Sono uno spirito che sarà ovunque nell’universo e questa oggi è la mia casa, la mia famiglia», rivolgendosi agli studenti che applaudono. Quest’anno per il 30 novembre, data che ricorda la prima abolizione della pena di morte, avvenuta nel Granducato di Toscana, la Mole Antonelliana non verrà illuminata, «ma sono io che emetto luce!», conclude radiosa Sunny Jacobs.
Piergiacomo Oderda

Commenti