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Valeria Tron: “Man dë peiro” (Mani di pietra) dal disco “Leve les yeux”

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Valeria Tron ci accoglie nel suo splendido prato di Miradolo tra chiocce, gatti e cani. Il piglio deciso delle risposte, la disponibilità a raccontarsi in profondità ci lascia di stucco. I versi di “Man dë peiro” (Mani di pietra) dal disco “Leve les yeux” ci consentono di ritrovare l’immagine paterna a cui deve il dono della potenza della sua voce. Verso le montagne della terra natìa, Rodoretto in particolare, si volge costantemente  il suo pensiero. L’’intento di Valeria è quello di “scavalcarle come se fossero dei ponti l’una con l’altra e di avvicinarmi ad altre culture, ad altre genti”. Quando viaggia, spesso per ritirare premi ambiti, come il Musicultura a Recanati o l’Andrea Parodi a Cagliari (2015), per non parlare del prestigioso CPM a Milano (“L’artista che non c’era”), trova sempre qualcuno che “pur non conoscendo la nostra lingua e forse non avendo mai visto una montagna oggi ce l’hanno a cuore”. La lingua, il patouà che Valeria “trasporta con fierezza” è “una lingua che può dare e darà, al di là di queste montagne”. Per scriverla entri nelle viscere della lingua “per cui non ci soffermiamo più alla musica dove la parola seguiva gli strumenti ma al contrario, sono gli strumenti che sono al servizio della parola, la voce è al servizio della parola”.

La accompagnano nelle sue esibizioni i Joglar (Gianluca Banchio alle percussioni, Marco Arnoulet al semitoùn, Ugo Macerata al flauto traverso, Paolo Gelato alla chitarra, Mario Manduca al contrabbasso). Ugo, suo compagno di vita, ci racconta la sua abilità nel ritrovare chiavi per serrature di antichi mobili, addirittura al Palazzo Reale di Torino. La loro passione per il legno letteralmente si respira dal profumo che pervade la loro casa. Valeria si schernisce al paragone con Edith Piaf, preferisce raffrontarsi a Violeta Parra, cantautrice cilena mancata nel 1967 e Rosa Balistreri, artista siciliana vissuta tra il 1927 e il 1990.

Davanti agli studenti di una facoltà di teologia commenta “Ho mani di pietra che si abbracciano/una montagna che si abbassa/una mano nell’altra ad accarezzare/tanto la neve quanto l’erba alta”. L’immagine della gerla rievoca “il peso della propria esistenza. Mio padre mi aveva insegnato a non avere paura della morte. Se ci tendiamo le mani, se torniamo alla misura di umanità più genuina riusciamo ad accarezzare tanto il vigore della vita che avanza, quindi l’erba alta tanto la neve che dà l’idea dell’inverno… la morte apparente perché l’erba è sotto e sopravvive sempre, prima o poi qualcosa rinasce”. Ricorda la commozione di chi veniva dai  paesi caldi dell’Africa e non aveva mai visto la neve, “certe cose accomunano davvero tutti e tu le senti sulla tua pelle, le sofferenze sono una delle cose che assomiglia di più alle persone e le avvicina”.

Il prossimo disco riserverà delle sorprese, forse canzoni in italiano, in spagnolo o addirittura in curdo, “popolo che rispetto ed ammiro tantissimo per resistenza e per coraggio mi ricorda molto la nostra resistenza qua sulle montagne”.

Piergiacomo Oderda

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