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VIDEO. Il perdono rivolto all’offensore si chiama “Riconciliazione”. Antonio De Salvia

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di Piergiacomo Oderda

Sfila una scolaresca dell’Istituto Bosso Monti impegnata nell’iniziativa “La scuola adotta un monumento” per il carcere giudiziario “Le Nuove” di Torino. Una lama di luce lambisce il ritratto di Padre Ruggiero, cappellano di questo carcere dal ’44 fino alla chiusura. «E’ stato il punto di riferimento prima che avvenisse la riforma della struttura penitenziaria (1975). Era il bibliotecario, educatore, punto di riferimento per i detenuti, per gli agenti di custodia e anche per noi che ci occupavamo di attività didattiche e formative». Ce ne parla Antonio De Salvia, criminologo, cofondatore dell’Università del Perdono insieme a padre Gianfranco Testa. Ama sensibilizzare le scuole su queste intuizioni. All’Istituto Regina Margherita di Torino «abbiamo parlato di perdono. Non consiste nel giustificare o nell’assolvere l’offensore che ti ha rivolto un’offesa, un tradimento, una maldicenza, una diffamazione. Perdono è la capacità che abbiamo noi tutti in quanto esseri umani di prenderci cura di noi stessi, di fare un dono a noi stessi per riuscire a non sprecare delle energie e per non rispondere all’offesa con un’altra offesa. Se all’offesa ricevuta rispondiamo con un’altra offesa, noi in sostanza stiamo dando ragione all’offensore perché non ci comportiamo diversamente da lui. E rispondendo all’offesa con un’altra offesa sprechiamo delle nostre energie. Se quelle energie invece di sprecarle le utilizziamo per prenderci cura di noi stessi, noi abbiamo raggiunto un doppio risultato. Primo, stiamo meglio. Secondo diminuiamo il numero delle offese che sono in circolazione». Del metodo dell’Università del Perdono si tratta diffusamente nel testo “Il Perdono. Un itinerario pedagogico e formativo” (Edizioni Libere, 2014). «Il perdono come dono che uno fa a se stessi è sempre possibile in quanto la vittima si prende cura di sé. Se la persona offesa vuole riprendere la relazione con colui che le ha rivolto l’offesa che cosa bisogna fare? Questa parte, il perdono rivolto all’offensore, la chiamiamo “Riconciliazione”.  Il perdono è sempre possibile, la riconciliazione solo a determinate condizioni. Le condizioni sono che l’offensore recepisca, capisca, diventi cosciente di quello che ha fatto nei confronti dell’offeso e si proponga ovviamente di non ripetere più le stesse azioni. L’offeso specialmente quando si tratta anche di vittime di reati molto gravi, l’offeso che prende la decisione di perdonare se stessi non è che rinuncia al dovere di denunciare, di richiedere giustizia e di aspettarsi che l’offensore venga punito per quello che ha fatto. L’offeso, la vittima ha il dovere di richiedere giustizia per se stessa, per l’autore del reato e anche per altre eventuali vittime». Antonio De Salvia ha lavorato nelle carceri dal 1974, nel testo di cui è coautore “Il volontariato penitenziario oggi…” (Edizioni Italian Christian Media, 1991) si soffermava sui compiti della “persona che esprime, porta e vive la solidarietà personale e sociale rivolta alle persone limitate nella propria libertà”. «Perché sia per chi va all’interno nel carcere sia per chi è all’interno del carcere, sia positiva la relazione, ci deve essere reciprocità. Nei miei incontri con i detenuti, ritenevo sempre che fosse preminente il fatto che delle persone, degli esseri umani si incontrassero tra di loro. Se c’era autenticità di questi incontri di esseri umani, allora non ero io a dare, ero io a ricevere molto di più di quello che davo a loro. Perché la loro umanità veniva fuori. Ci occupavamo di formazione professionale e di reinserimento lavorativo dei detenuti dopo la pena. Se offri una buona qualificazione professionale, un buon lavoro, offri una possibilità di vita, di realizzazione di sé quella persona che ha commesso determinati reati, può dire bene posso vivere anche senza commettere reati». Recupero dal libro “La funzione della pena secondo le leggi dello Stato e il pensiero della Chiesa” (2005) una considerazione sull’art. 27 della Costituzione. “La pena della detenzione deve essere assunta come momento di autoanalisi, di riprogettazione della propria vita”. «Dalle scienze psicologiche abbiamo desunto quest’affermazione: ogni persona non coincide con la somma delle azioni che ha compiuto, ogni persona è più delle azioni che ha compiuto. Ogni essere umano ha la possibilità di essere qualcosa, di essere qualcuno. La mediazione penale è funzionale sia per quanto riguarda l’autore del reato che per la vittima. La vittima perché riesce a farsi comprendere, a farsi capire a presentarsi anche di fronte all’autore del reato. L’autore del reato può anche esprimere altre proprie potenzialità che non si esauriscono nell’azione che è stata compiuta». Antonio De Salvia ci racconta com’è nata nel ’98 l’associazione “Nessun uomo è un’isola”. «Quando abbiamo saputo che questa struttura doveva essere lasciata e i detenuti dovevano essere trasferiti nel nuovo carcere delle Vallette avevamo anche saputo che c’era qualcuno interessato ad abbattere questa struttura e a fare dei palazzoni, dei “megastore”. Ma qui ci sono passati centocinquant’anni di storia della nostra città,  si sono vissute diverse situazioni, da quella dei partigiani, del terrorismo e tante altre, qui Gramsci è stato detenuto, anche se per poco tempo. Ci siamo messi in contatto con le associazioni degli ebrei deportati, con le associazioni dei partigiani per dire anche alla città non azzardatevi a vendere questa struttura e a destinarla ad altro!». Nella foto Antonino De Salvia e Piergiacomo Oderda. Riprese e montaggio di Marco Riva

Piergiacomo Oderda

 

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