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“La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani” di Giuseppe A. Samonà

21/07/2020 18:44

di Piergiacomo Oderda

Alcuni minuti di presentazione in un programma di Radio Tre mi hanno suggerito l’acquisto di “La frontiera spaesata. Un viaggio alle porte dei Balcani” di Giuseppe A. Samonà (εxorma, 2020). Nelle prime pagine ho provato un senso di spaesamento nel prendere dimestichezza con uno stile allusivo proprio di chi associa luoghi, ricordi, brani di letteratura. Con l’aiuto delle cartine schematizzate dalla compagna dell’autore, studioso di religioni antiche, si dipana l’argomento principale, un viaggio a partire da Trieste verso la Slavonia e la Croazia. Quella che rappresentava una difficoltà iniziale, si rivela ben presto una risorsa di un libro che diventa un modello per una guida di viaggi. L’autore si lascia condurre nelle riflessioni da ciò che vede, dal cromatismo di alcuni palazzi per esempio e dai libri che legge, sia prima che dopo il viaggio. Tra le righe emerge qua e là la drammatica questione dell’esodo istriano e giuliano dalmata nella prospettiva dell’integrazione delle culture e delle lingue. Il linguista può cogliere le riflessioni sul serbo croato nell’ultimo capitolo, tra distinzioni scientifiche e una sorta di tensione all’unità.

Su Trieste, si ricorda in alcune pagine la riflessione/azione di Franco Basaglia, direttore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale. I degenti del manicomio ottengono nel 1972 il “meritato pensionamento” per Marco, il cavallo “che da anni tira il carretto con dentro i panni per la lavanderia”. L’anno successivo, costruiscono “un gigantesco cavallo di legno e cartapesta azzurro”, “la sua pancia è piena dei sogni, dei desideri, della gioia di vivere, dell’urgenza di libertà degli internati”. Il testo di Samonà permette di avventurarsi in alcuni luoghi che la toponomastica di Torino ricorda nella zona dove gli esuli hanno trovato riparo. Gli itinerari per la scoperta di Pirano partono da piazza Tartini, nato qui nel 1692, “uno dei più grandi violinisti del XVIII secolo”, “esploratore appassionato attraverso i sentieri ora impervi ora fatati dell’armonia”. Invita all’ascolto di “Didone abbandonata” o “Il trillo del diavolo”. A Lubiana/Ljubljana, la piazza di inizio visita è dedicata al poeta Franco Prešeren, vissuto nella prima metà del XIX secolo (1800-1849), “la sua opera poetica è nei temi profondamente romantica: l’amore, il risveglio delle nazioni, dei popoli, la libertà come destino umano”, “il nostro Dante quando ti parlano di lui”. Sul fatto che sia poco conosciuto (e tradotto), Samonà riflette come per altri autori: “l’Europa conosce poco sé stessa”. Il giorno della sua morte, l’8 febbraio, è il giorno della festa nazionale slovena. A partire dalla “Ciril-Metodov trg”, presenta “due personaggi chiave della nostra storia, la loro missione evangelizzatrice”: “a loro si deve la messa a punto dello slavo liturgico e la scrittura glagolitica che poi i loro discepoli trasformarono in cirillico”. Il metodo di scoperta è semplice: “Ci pensi mai ai nomi delle fermate della metro? O a quelli delle strade? Delle piazze?”.

Uno degli scrittori più emblematici dell’esodo è Fulvio Tomizza, Samonà approfondisce il romanzo “La miglior vita” (1977), “corrono per tutto il libro i colori, i suoni di una terra in cui italiani, slavi, croati vivevano, persino s’intrecciavano insieme”. Il narratore, Martin Crusich, deve commentare la partenza del sessanta-settanta per cento della popolazione di Radovani dopo il 1954, anno in cui la zona B viene ufficialmente assegnata alla Jugoslavia. A Rovigno si ricorda Ligio Zanini, un poeta che “decise di rimanere nel sogno Jugoslavo, si oppose nel contempo a Stalin e a Tito e fu condannato a passare tre anni nel famigerato campo di Goli Otok” (l’”Isola Calva” nella sua autobiografia del 1990, “Martin Muma”). Scrive in istriota, la lingua dell’Istria sud occidentale, “le lingue a differenza degli uomini e delle loro ideologie si incontrano, si riaggiustano, si mischiano, si influenzano volentieri, non si combattono”. Enzo Bettiza era dalmata, ne “Il fantasma di Trieste” (1958) parla di “doppia personalità”, italiana e slava. Se decide di farsi “una”, “indivisibile e assoluta”, “si compie una violenza su sé stessi, da cui nasce una vera e propria nevrosi politica: il nazionalismo di confine”. A Pola, Samonà sente parlare italiano da due signore anziane, “polesane da sempre!” mentre nell’alberghetto dove trova una stanza, “la bionda ragazza croata parla italiano perché era italiana la nonna materna”.

L’itinerario si chiude con Zagreb/Zagabria con “Il ritorno di Filippo Latinovicz” (1932) di Miroslav Krleža; il luogo del ritorno è la Pannonia, l’antica Provincia romana che comprendeva parte delle attuali Croazia e Ungheria, anche di Austria, Slovenia, Bosnia, Serbia, “terra bastarda, mischiata, a cavallo di tanti paesi e popoli: insomma una sorta di luogo ideale che sottilmente permette di trasformare le piccole trame della provincia in un potente paradigma universale”. Scrive ancora Samonà a proposito di “luminosi incontri umani”, come “scorci che aprono sulle diverse culture”: “non è questo, incontrare persone, amarle, lo scopo più alto di un viaggio, per altro anche nel senso più largo di vita?”. Conclude il libro un’antologia di letture che hanno “direttamente gravitato intorno alla scrittura di queste pagine”.

 

Piergiacomo Oderda

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