Facebook Twitter Youtube Feed RSS

Cavour. “Alla ricerca del tempo perduto”. Ricordi e emozioni

25/02/2021 19:04

Cavour. “Alla ricerca del tempo perduto”

di Dario Poggio

Ad un amico Giacomo Casanova scrisse che, a ripercorrere l’itinerario della sua vita, provava un irrefrenabile divertimento, perché gli pareva di rivivere una seconda volta i luoghi, gli episodi, i fatti che via via descriveva”.

 

Prima parte

 

Senza alcun intento di edulcorata celebrazione o di sentimentalismo retrò vogliamo, con queste poche righe, raccontare molto semplicemente ed in modo assai approssimativo, qualche scorcio, qualche ricordo di una ormai, purtroppo dimenticata ed oggi “Insolita Cavour”.

 La Cavour di qualche anno fa…, la Cavour della nostra gioventù, un paese per molti versi assai diverso da quello che oggi vediamo e viviamo quotidianamente.

Una Cavour che possiamo ormai definire, con un po’ di nostalgia, di “Un tempo perduto “.

La Cavour che tentiamo di ricordare è infatti quella di un paese tranquillo, a dimensione d’uomo dove la vita scorreva ritmata dai battiti delle campane, dal succedersi delle stagioni, dai tempi lenti carichi di una consonanza naturale e spirituale, consonanza che si avvertiva nelle cose e nell’aria.

Un paese dove, tra gli anni 50 e 70, ci si rilassava alla vista delle assolate, polverose, deserte strade estive, oppure, nei giorni di mercato o di festa, dove si poteva ascoltare il brusio delle chiacchiere, dei pettegolezzi e delle contrattazioni all’angolo della piazza, un paese che appariva, o meglio che era, a “portata d’orecchio e di mano”.

La domenica mattina, prima e dopo la messa, piazza Sforzini si trasformava in un grande formicaio… gli uomini del paese, della campagna ed i frazionisti, avvolti nelle loro mantelline, i comodi, funzionali, caldi tabarri rigorosamente neri, vi facevano capolino, un grande assembramento, un rumoroso salotto in piedi, un’agreste, campagnola “Agorà”.

Le Funzioni, nella parrocchia di San Lorenzo, erano quattro (se ben ricordo), tutte frequentatissime, quella delle 8, delle 10, delle 11 e la pomeridiana delle 17,30.

Le donne, rigorosamente con il foulard in testa, sedute nei banchi e gli uomini, tutti in piedi, a capo scoperto ammassati dietro.

Erano i tempi di Don Amore, un prete dalla voce tonante (allora non c’erano i microfoni) e dai modi severi. Un parroco che conosceva bene il suo “gregge” e dal pulpito scrutava gli uomini ad uno ad uno (e non solo gli uomini…) per fare in modo che prestassero ben attenzione alla predica.

Ma, appena questa finiva e Don Amore scendeva per proseguire la messa in latino rivolto verso l’altare (come si faceva allora), gli uomini delle ultime file riprendevano il filo delle loro eterne trattative, del loro sommesso ciarlare… appena momentaneamente interrotto dalla predica quasi come fossero ancora in piazza (si parlava del valore di “bucin”, del “lait”, d’le vache, d’le galine, del tempo, dell’andamento dei raccolti del gran, d'la melia ecc.ecc.).

Alla fine della Messa dopo l’ite Missa est uscivano tutti contenti e benedetti!

Ma non finiva qui, tutti si assembravano appena fuori dai portali della chiesa per continuare con più calore ancora e slancio le discussioni, le contrattazioni mentre le donne, a debita distanza, iniziavano a raccontarsi i loro interminabili pettegolezzi ...poi tutti e tutte si spostavano lentamente, sempre chiacchierando, verso la piazza principale.

Erano quasi tutti uomini e donne di campagna, abituati al duro lavoro dei campi, con i volti bruciati dal sole e segnati dalle intemperie; ricordo che da ragazzino ero impressionato soprattutto dalle mani degli uomini …enormi, ruvide, con delle grosse unghie spezzate e sempre terribilmente nere.

La messa delle 11 era cantata in latino con i canti gregoriani da una corale la “Schola Cantorum” numerosa, sempre presente, dalle voci potenti ed intonate, coordinate e dirette da una storica figura cavourese: Paulin Rueta.

All’oratorio c’era don Bonino, un prete più giovane, che ogni tanto ci impartiva, tra i nostri mugugni, qualche buona lezione di catechismo (che ancor oggi ricordo) e gli unici giochi consistevano in una giostra girevole di ferro ed una porta da pallone (arrivarono poi …parecchi anni dopo due tavoli da ping-pong con racchette di legno).

Mio fratello, in gioventù aveva frequentato il vecchio oratorio di Cavour, oggi non più esistente, ancora più povero e misero di quello dei miei tempi ma dove venivano proiettati (dopo la benedizione) i film di Tarzan (solo ed esclusivamente quelli) con Johnny Weissmuller e la sua fida scimmietta Cita.

Noi abitavamo a Torino ma al sabato e domenica e nei periodi di vacanza venivamo sempre, con gran gioia, nella casa di Cavour.

Come non ricordare poi Don Scalerandi, il vecchio curato della Crusà (Santa Croce, la chiesa barocca, un po’cadente, posta all’incrocio di via Giolitti con via Plochiù), con il suo bastone e il suo modo di parlare e camminare zoppicando che ricordava, a noi ragazzi, il pirata John Silver dell’Isola del Tesoro di Stevenson.

Un vero prete di campagna, l’anziano don Maurizio, sempre vestito con la talare nera ed il caratteristico cappello a piccolo tricorno in testa, amico di tutti e sempre disponibile ad aiutare il prossimo con le preghiere (rivolte agli… “Angeli, Arcangeli, Serafini e Cherubini “come ripeteva spesso) e con i pochi denari che aveva a disposizione. Era poi specialista nel fare le richiestissime raccomandazioni… scrivendo lettere ai suoi molti conoscenti per aiutare i più bisognosi a trovare un lavoro.

Cambiando argomento e raccontando dei caffè-bar cavouresi di quegli anni (alcuni ancora esistenti ma molti oramai chiusi oppure riaperti con caratteristiche completamente diverse) certamente il più centrale, poiché collocato proprio davanti al Municipio, era (ed è tuttora) il “Bar Roma”. 

All’epoca aveva rotondi tavolini color beige-cioccolato, il posto telefonico, la saletta per le carte, il grande salone posteriore con una troneggiante televisione in bianco e nero e, nel bancone pasticceria, i famosi “cavouresi al cacao” una specialità inventata dal vecchio titolare Alessandro Ugo.

Sistematicamente frequentato per l’aperitivo o per il caffè dai due fratelli geometri Rivoira, dal dott. Borgna, dal dott. Argentero, dal geometra Perassi, dal sig. Busso, dal sig. Ferrero, dal dott. Aluffi, dal dott. Percocco, dai giudici La Marca e Mongardi   personaggi, come d’altronde molti altri, che possiamo considerare “stereotipi “della Cavour “del tempo che fu”.

Numerosi ed altrettanto caratteristici erano poi gli altri caffè-bar   cavouresi tra cui ricordiamo il caratteristico “Bar del Tranvai” tenuto dai signori Petitti, dalla mitica figlia Bruna e dal suo convivente Danilo; era frequentato da molti cavouresi ma anche dai cacciatori, dai viaggiatori e dai militari che, transitando per la circonvallazione di Cavour, non potevano mai esimersi da una sosta.

Ma il caffè-bar, storicamente più famoso, era sicuramente il caffè “Sociale” citato in alcuni libri ed articoli (ad esempio da Edmondo de Amicis nel libro Alle porte d’Italia) in quanto frequentato, nella prima metà del 900’, dall’on. Giovanni Giolitti e dai suoi amici più fidati con i quali, nella fumosa saletta sul retro, si intratteneva in combattutissime partite a tresette.

Giolitti amava Cavour, egli vedeva nel paese piemontese e nella sua semplicità un mondo a sé, una sorta di oasi di pace dove si sentiva libero di riposarsi da ogni impegno politico e da ogni condizionamento della burocrazia romana.

Nella sala attigua invece, ai nostri tempi, si giocavano le partite al biliardo dove il sig.” Gustavo” il mitico “campione della stecca” cavourese impartiva dure lezioni… a tutti gli altri pur bravi giocatori.

Tra una sigaretta e l’altra, un caffè e l’altro erano interminabili, invece, le chiacchierate e le bonarie ma accalorate discussioni serali sui temi più svariati (attualità, politica, cultura, storia, viaggi, sport …) che facevano alcuni tra i frequentatori più abituali del caffè Sociale tra cui ricordiamo il rag. Verra, il p.agr. Mattalia, il commendatore Poggio, il geom. Medoro, il cav. Argentero, il sig. Turaglio, il sig. Boiero (detto il pruf. Victor), il sig. Prioglio (detto il mago Bati), i fratelli Melano...      

 Un altro caratteristico “caffè” era ( ed è tuttora ) quello della “Fontana e Biliardo” situato nella storica, medioevale casa-forte degli “Acaja” dove d'estate si godeva una piacevole frescura che scendeva dalle pendici della Rocca, ed il “Bar Manfredi” su via Roma frequentato prevalentemente, a quell’epoca, dai noi giovani (ricordiamo tra i frequentatori abituali degli anni ‘60/‘70, purtroppo prematuramente scomparsi, il fotografo Ugo Faure, Enzo Perassi, il maestro Gazzano, Giorgio Strada, Renato Alberto, Ernesto Bocco, oltre al titolare Giovanni - Giò-Manfredi), molto frequentato anche dai giovani  il " Caffè della Piazza" situato  proprio all'angolo di piazza Sforzini.

Parlando invece di ristoranti cavouresi il posto d’onore, per fama e prestigio, lo deteneva e lo detiene tutt’ora, meritatamente, la “Locanda la Posta” ovvero il ristorante del famosissimo pranzo dei “grassoni” dalla tipica cucina piemontese.

Mio fratello, ricorda ancora il vecchio proprietario cav. Giovanni Genovesio intento a pesare, sulla bilancia posta all’ingresso del locale (prima e… dopo il pantagruelico pasto), i “grassoni” provenienti da tutta Italia per stabilire il vincitore dell’original tenzone; il super grassone vincitore che veniva poi fatto sfilare, come un re, per le vie del paese attorniato dagli altri grassoni e da

un’ala di folla festosa.      

Gli attuali proprietari della “Posta”, figli di Francesco “Ceco” e nipoti del cav. Giovanni, ossia Chicco ed Antonella Genovesio, hanno fatto rivivere alcuni anni fa, almeno per una volta, con orgoglio e passione (poiché la buona cucina è fatta di ingredienti, capacità, arte, cultura e tradizione) il vecchio concorso riproponendolo in chiave moderna mediante l’Associazione “Informissima” con ospiti provenienti, per la storica occasione, da tutto il mondo.

Invece, in cima alla  Rocca, seppur ristrutturato ed ampliato, vi è ancora il ristorante “ Vetta della Rocca” tradizionale meta delle passeggiate di molti cavouresi  che, specialmente la domenica pomeriggio, salivano sulla Rocca per andare a fare una partita a bocce, godersi il fresco e fare la merenda “sinoira”  gustando semplici ma gustosi  piatti  ( insalata fresca , coniglio alla cacciatora , pollo allo spiedo e patate fritte il tutto innaffiato da  qualche buon bicchiere di vino della Rocca  ) cucinati nella piccola osteria di allora  e la sera, leggermente brilli,  scendevano sostenendosi vicendevolmente a braccetto nel buio,  un po' traballanti ed insicuri sulle gambe…per l'antica e scoscesa strada intonando vecchie canzoni piemontesi.       

Purtroppo, sono molte le locande oggi scomparse, tra cui ricordo la “Tampa”, la “Piola

d’ Clara”, il “bar Ponte”, la “piola d’ Marinot” (che ricordava molto il famoso " Lapin Agile " il caffè parigino di Montmartre frequentato dagli artisti, sopratutto pittori, quali Picasso, Modigliani, Toulouse Lautrec...)  e i “ Tre Scalin” ; vecchi e tradizionali locali, taverne  di cui conservo ancora  il suggestivo ricordo di ambienti un po’ bohemien e dei loro antichi profumi, delle scaffalature,  pavimenti e  tavole in legno dove si giocavano, tra perenni nuvole di fumo grigio/azzurre dei tuscan, tuscanin,  pipe  e  sigale,  interminabili partite a tresette e si " tracannavano "  i famosi quartin, mes liter e liter ....ovviamente sfus serviti nei caratteristici e classici contenitori,  rigorosamente d'veder.

 

(segue al prossimo numero)                                                                                                                                                                                                                        Dario Poggio

Commenti